Splendori caravaggeschi, a Prato
Fino al 13 aprile 2020, Palazzo Pretorio ospita i capolavori della Fondazione De Vito, in dialogo con quelli della collezione civica: una mostra in 19 opere, molte delle quali inedite, all’insegna del Barocco e dell’influenza che Caravaggio ebbe in Italia, in particolare a Napoli, all’epoca sotto dominazione spagnola ma caratterizzata da una vivace scena artistica.
Nonostante l’involuzione sociale dovuta al sudario d’austerità imposto all’Italia dalla Controriforma, l’arte in Italia non subì una completa battuta d’arresto. Il controverso Caravaggio aveva lasciato una traccia profonda nello sviluppo dell’arte europea dell’epoca, introducendo un naturalismo così vivace e intenso da sovvertire i canoni della bellezza cinquecentesca, quella cioè di Tiziano e Michelangelo. Era riuscito a raccontare le miserie morali di un’Italia che era colonia, unendo nelle sue tele pietà, lussuria, ipocrisia e senso del sacro, e tratteggiando in controluce i caratteri della mentalità italiana dell’epoca (ma non solo), densa di contrasti e contraddizioni. I suoi epigoni non furono altrettanti talentuosi e capaci osservatori, ma seppero comunque esprimere, se non lo spirito, almeno l’atmosfera dei tempi.
NAPOLI, DAL NATURALISMO AL BAROCCO
La mostra nasce dall’incontro fra uno dei nuclei più importanti di dipinti del Seicento napoletano in Toscana, quello di Palazzo Pretorio, e la collezione De Vito, una delle più importanti nell’ambito della pittura napoletana di quel secolo. Capitale del vicereame soggetto alla Spagna, Napoli, per essere stata fra le mete di Caravaggio, fu al centro di una vivace scena artistica di stampo naturalista, che ebbe in Giovanni Battista Caracciolo il principale continuatore del “caravaggismo”, di cui adottò il taglio ravvicinato e obliquo delle mezze figure e l’intenso gioco della luce, quest’ultimo utile per creare atmosfere emotivamente intense. Altro protagonista fu Jusepe de Ribera, artista di origine spagnola ma attivo a Napoli fra il 1616 e il 1652: il suo naturalismo si dispiegò fra allegorie e figure di santi, come il Sant’Antonio abate in mostra, e fu caratterizzato da una particolare attenzione nella resa dell’espressione del volto. Tuttavia, proprio l’opera in questione è interessante perché segna l’evoluzione del Ribera verso una pittura ancor più moderna e di respiro europeo, che guardava ai fiamminghi e in particolare a van Dyck; si attenua il misticismo e si accentua l’umanità psicologica. Legato invece al misticismo caravaggesco, Mattia Preti, che nel Ripudio di Agar costruisce una sorta di teatro popolare, mutuato nell’impostazione dalle scene di taverna dei Bentvueghels. L’atmosfera popolare è soltanto sfiorata, mancando in Italia una borghesia come quella protestante in grado di apprezzare e richiedere la pittura di genere, per cui il Seicento pittorico italiano resta in gran parte legato alla tematica religiosa, e anche questa deve fare i conti con le direttive ecclesiastiche. Preti va oltre il naturalismo caravaggesco in opere più tarde come la Deposizione (1675), in cui il pallore argenteo del corpo di Cristo, il punto di vista obliquo e ravvicinato della scena, il lenzuolo macchiato di sangue, appartengono al linguaggio “scultoreo” del Barocco.
LA DONNA NELLA PITTURA
Perso un po’ l’interesse per la pittura mitologica, quella religiosa rimaneva l’unico ambito in cui proporre soggetti femminili, appunto legati a episodi biblici o evangelici. Le sante, in particolare Caterina, Orsola, Lucia, Agata, sono i soggetti più ricorrenti nella pittura napoletana dell’epoca, densa di pietà e misticismo, in ossequio alla Spagna e alla Controriforma. Andrea Vaccaro, Bernardo Cavallino, Antonio De Bellis, sono i protagonisti di una fase più tarda del caravaggismo, databile attorno alla metà del secolo, in cui si manifestarono influenze del classicismo bolognese e romano ‒ in particolare grazie alla presenza in città, dal 1630, di Artemisia Gentileschi ‒, così come della pittura nordeuropea. In virtù di queste influenze, si riverbera sulla tela una certa modernità nella caratura della figura, più femminile e terrena rispetto a quelle di sapore agiografico dei decenni precedenti. Cavallino, in particolare, ci restituisce una Santa Lucia dall’aplomb aristocratico, cui non è estranea una certa raffinata ispirazione da Velázquez, per la veste sobria nei colori ma imponente nella foggia, e nell’atmosfera quasi monacale. Attraverso la mostra, si può quindi apprezzare la vivace stagione del Seicento napoletano, specchio di una città culturalmente viva, sensibile ai vari climi pittorici europei.
‒ Niccolò Lucarelli
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